In occasione del conferimento a Papa Francesco del Premio Carlo Magno da parte dei vertici dell'Unione Europea, il pontefice ha indirizzato ai presenti un discorso che riportiamo qui sotto e nel quale vengono richiamati temi e istanze su cui anche il volontariato è impegnato da anni.
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra
presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen
Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro
cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il
prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo
infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per
auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato
Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai
propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso,
essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo
anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si
ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti
nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la
speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri
fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un
baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono
uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune,
rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni,
ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli»[1],
lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra
sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate
scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri.
Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità
paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di
cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di
costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la
rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e
che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»[2].
Nel Parlamento europeo
mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati
che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca
e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno
ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa
decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice.
Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare
processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va
“trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi
dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in
movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di
nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti
avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda
madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti
dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo,
Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa
ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini
e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei
loro fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio
nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di
memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal
presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo
ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr
Esort. ap. Evangelii gaudium, 108),
ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri
popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano
incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza
attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili
dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica
facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi
seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato
dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare
l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che
provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni
multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di
nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un
colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà
attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di
fatto»[3]. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che
seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la
pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che
siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»[4].
I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti
dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a
costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a
non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per
correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove,
fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti
egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre
patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura
un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e
lunga cooperazione»[5].
Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato
per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri
giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di
Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su
tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la
capacità di generare.
Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci
sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e
livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in
ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza
radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a
conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di
visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per
confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si
radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana
convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal
generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà:
quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e
bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi
dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono
consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi
sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro.
L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e
multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro
fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti,
e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare
per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà
benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235).
Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà
il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una
solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come
generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città –
e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità.
Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico
delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la
tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in
“colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima
europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli
attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove
sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel
contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture
e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di
integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato
risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non
è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della
massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in
breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con
l’unica preoccupazione per il proprio io»[6].
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa:
dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando
con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci
permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo
implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere
l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo
straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un
soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi
coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che
privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la
ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla
preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza
esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239).
La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le
armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e
della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una
cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di
esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i
curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad
inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti
diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter
realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma
culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in
evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di
gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere
utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del
dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può
limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più
piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una
società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti
partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale
non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte
appello alla responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi
non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che
già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito
europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale
partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non
possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di
questo sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come
possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li
priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi
per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie?
Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti,
quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di
giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri
giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso
di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro
opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».[7]
Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo
bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato,
specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed
equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e
della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a
un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato,
incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania,
8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al
profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad
un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e
qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la
corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che
garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come
ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte
dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo
sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con
gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del
mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una
discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire
quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”[8]» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un
futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente
puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso,
libero, creativo, partecipativo e solidale».[9]Questo
passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà
nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione,
ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui
l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e
di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito
coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che
mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo,
portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia
consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può
farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori
del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare
altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del
Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani
verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza
urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una
sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie,
come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di
fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»[10].
Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che
abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno
un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello
il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e
chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone
malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di
scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un
invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano.
Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà,
amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata
dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono
una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla
mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle
famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più
che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni.
Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza
dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa
dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima
utopia. Grazie.
(fonte vatican.va)
Nessun commento:
Posta un commento