RICORDO DI ROSETTA DE GUILMI
Alla nostra generazione (di Orazio, di sua moglie Rosetta, mia) è toccato un privilegio, quello di sentirci vivere con l’illusione che ne risulta, di prendere cioè come una realtà fuori di noi un interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. Rosetta dagli occhi azzurri ebbe il privilegio di avere la vita che si era scelta, piena di sentimenti, di interessi, di serio lavoro organizzativo. Aveva interessi per il suo lavoro all’interno del Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci a Partinico, interessi per le lotte dal basso nel Belice negli anni dopo il terremoto del ’68; interessi per il lavoro di suo marito e per la famiglia che si era creata.
Ho avuto il privilegio di essere stato testimone alle sue nozze… mi sembra ieri… e invece sono passati circa 40 anni!
Il poeta Konstantinos Kavafis scrisse:
«Ognuno, per essere felice, dovrebbe cercare di realizzare “la vita che desidera”. Ma, se questo non è possibile (se non puoi la vita che desideri), perché non tutti hanno la forza, la determinazione o la fortuna di riuscire a seguire la propria vocazione e conseguire i propri obiettivi, allora non la si deve sprecare (...) non lasciatevi avvolgere o travolgere passivamente dalla combinazione casuale e bizzarra di incontri occasionali e superficiali (il gioco balordo degli incontri), ma sappiate scegliere solo le persone a cui siete veramente interessati o con cui avete una vera affinità. Così facendo, forse riuscirete ad amare fino in fondo la vita, ed essa almeno sarà per voi un’amica cara e sincera”. Rosetta aveva scelto.
Compito di queste parole non è ovviamente operare una ricostruzione dell’amicizia verso lei e Orazio, bensì quello “di risvegliare dal sogno” e ricordare gli anni della giovinezza. Intendo parlare delle straordinarie illusioni degli anni che dedicammo all’apprendimento da Danilo a Partinico e Trappeto, a partire (per me) dal ’68. Un rito noi celebravamo in uno stato di perfezione e di immunità da tutti quei compromessi che ci attendevano nell'avvenire, mentre portavamo avanti iniziative corrispondenti al nostro impegno; eravamo innocenti.
L'errore di noi giovani e meno giovani in quegli anni fu di barattare le speranze con l'illusione; dopo il 1978, poi, non restò che barattare l'entusiasmo col quotidiano impegno.
Dal capitolo XXVII del Fedone, ricordo a me stesso:
Quando l’anima raccolta in se stessa si dà alla meditazione, allora si leva a ciò che è puro, che è eterno, che è immortale; ed essendo affine a questo, vi si tiene ferma tutte le volte che le accada e le sia possibile di raccogliersi in se stessa e cessa dall'errare (…); e tale suo stato non si chiama forse saggezza? (Fedone di Platone)
Ricorderò sempre quel periodo.
Man mano che invecchiamo, che cosa la nostra memoria espelle, come un animale da soma che rifiuti un ulteriore peso da tirare? Le cose più sgradevoli? Le più pesanti? Oppure quelle che cadono più facilmente? Solo quando i fatti da narrare si sono esauriti, quando si avverte nell'intimo un silenzio profondo, quando libri, storie e la stessa memoria sono ancora presenti, allora si può udire la voce degli amici e amiche, quella che può davvero farci emergere dai labirinti del nostro essere. Perchè non c'è nulla di sorprendente come la vita - tranne lo scrivere. Sì, certo, tranne lo scrivere, l’unica consolazione che oggi ci appartiene.
Giuseppe Carta
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